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di Primo Levi

….E’ questo un argomento che mi ha sempre affascinato: spesso ho avuto il sospetto che la mia scelta giovanile per la chimica, a livelli profondi, sia stata dettata da motivi diversi da quelli che ho razionalizzati e più volte dichiarati. Sono diventato un chimico non (e non solo) per il bisogno di comprendere il mondo intorno a me; non come reazione alle verità dogmatiche e fumose della Dottrina del Fascismo; non nella speranza della gloria scientifica o dei quattrini, ma per trovare o costruirmi un’occasione di esercitare il mio naso.

Sappiano infatti i non-chimici che ancora oggi, a discapito delle più sofisticate analisi strumentali, il naso rende tuttora servizi eccellenti al chimico suo titolare, in termini di semplicità, rapidità e investimento basso, anzi nullo. Basta, ed occorre, tenerlo in esercizio. Se ne avessi l’autorità, per i giovani aspiranti chimici introdurrei un corso ed un esame obbligatorio di riconoscimento olfattivo; e terrei il relativo laboratorio (null’altro che un archivio, un migliaio di boccette con l’etichetta in codice, pochi grammi di sostanza da identificare in ogni boccetta: anche questo sarebbe un investimento irrisorio!) aperto a tutti coloro, giovani o anziani, che desiderino introdurre nel proprio universo sensoriale una dimensione in più, e percepire il mondo sotto un aspetto diverso. L’educazione dei sensi non è anch’essa “educazione fisica”?

Qui si pone il problema se tutti gli umani siano provvisti in ugual misura di un olfatto educabile, o se non esistano anche i refrattari, come c’è chi, ben dotato sotto ogni altro aspetto, non distingue i colori. Non ho dati, ma a giudicare dal comportamento di tutti davanti un odore attraente o sgradevole ritengo che gli “anosmici”, da esentare, siano una minoranza, come i ciechi nati. Un buon naso è più effetto di esercizio che dono di natura, e il nostro olfatto, di regola, più che atrofico è trascurato.

Quanto la nostra civiltà lo trascuri, è dimostrato dalla povertà del nostro linguaggio relativo agli odori: abbiamo un assortimento di aggettivi univoci che si riferiscono a colori ben definiti, anche se alcuni di questi (“rosa”, “viola”) risentono ancora, almeno in italiano, del loro originario carattere di esempi; per contro, non disponiamo di un solo termine autonomo che designi un odore, per cui siamo costretti a dire “odor di pesce”, o di “aceto”, o di “muffa”. Che poi l’esercizio dia frutto, è mostrato dalla selettività olfattiva dei cuochi o dei profumieri; ma neanche loro dispongono di una terminologia svincolata dai sostrati concreti.   

Certo, per quanto ci sforzassimo, non raggiungeremmo mai le prestazioni di un cane, plasmato da millenni di selezione naturale e umana, e costantemente allenato: un bracco che segue una pista, con il naso a terra e quasi correndo, esegue a ogni istante una complessa analisi dell’aria, quali- e quantitativa, che sfida quanto potrebbe fare il miglior gascromatografo attuale; il quale, oltre a tutto, costa molti milioni, non sa correre (è anzi delicato e mal trasportabile), e non si affeziona al padrone.

Ma anche il più urbanizzato dei cani, il più regredito dei pets da salotto, si orienta senza difficoltà nella miriade dei messaggi olfattivi  che i suoi colleghi lasciano a futura memoria su tutte le cantonate. Quanto i cani ci devono commiserare.

…Ed a proposito di Flush, altro e più celebre cane letterario, Virginia Woolf scrive: ”Laddove due o tremila persone non bastano a esprimere ciò che vediamo, …non  esistono più di due parole e mezzo per esprimere ciò che odoriamo. Praticamente il naso umano non esiste. I più grandi poeti di questa terra non hanno odorato che rose da una parte e letame dall’altra. Nessun cenno delle innumerevoli gradazioni che si stendono frammezzo. Ebbene, era nel mondo degli odori che si svolgeva la più  gran parte della vita di Flush. Per lui l’amore era essenzialmente odore; musica e architettura, leggi, politica, e scienza erano altrettanti odori. Anche la religione era odore per Flush…”

E’ probabile che l’odorato umano sia stato schiacciato nel corso dell’evoluzione, dalla vista e dall’udito; nella vita di relazione, questi primeggiano, perché siamo in grado di emettere volontariamente complicati segnali visivi (gesti, espressioni del viso) e uditivi (parole, ecc), mentre emettiamo segnali olfattivi senza o contro la nostra volontà.

Ma nonostante tutto, il nostro trascurato naso ci sa mettere in allarme quando qualcosa sta bruciando, e ci avvisa che a suo parere il cibo che avviciniamo alla bocca è sospetto di decomposizione, e qualunque chimico riconosce a naso, senza esitare, il gruppo amminico primario, il nitrogruppo, l’anello che giustamente i nostri padri hanno chiamato aromatico, i terpeni e altri vari raggruppamenti.

…Ma tutti gli odori, gradevoli o no, sono straordinari suscitatori di memorie. E’ d’obbligo citare l’aroma della Petite Madeleine che evoca in Proust, dopo decenni, “l’edificio immenso del ricordo”.

Quando ho rivisitato Auschwiz dopo quasi quaranta anni, lo scenario visivo mi ha dato una commozione reverente ma lontana; per contro, l’”odore di Polonia”, innocuo, sprigionato dal carbon fossile usato per il riscaldamento delle case, mi ha percosso come una mazzata: ha risvegliato ad un tratto un intero universo di ricordi, brutali e concreti, che giacevano assopiti, e mi ha mozzato il respiro.

Con altrettanta violenza, “laggiù”, ci ferivano gli occasionali odori del mondo libero: il catrame caldo, evocatore di barche al sole; il fiato del bosco, odoroso di funghi e di muschio veicolato dal vento dei Beschidi; il profumo di sapone nella scia di una donna “civile” incontrata sul lavoro.